
Ecco a voi, la Marmolada, la regina delle Dolomiti, un giorno qualunque di un agosto dei primi anni 2000, forse persino 2002, primo o secondo anno che soggiornavamo a San Martino di Castrozza.
Sono andata a cercare questa vecchia fotografia dopo aver letto una serie di commenti sul fatto che l’11 dicembre scorso, Giornata Internazionale della Montagna (periodo in cui solitamente mi ammalo e quest’anno ho pure rispettato la tradizione, perché le tradizioni ormai sono diventate la cosa più importante), l’alpinismo è diventato patrimonio immateriale dell’umanità (come il tango e la pizza).
Lì per lì, lo ammetto, sono stata contenta: per tutti quei conquerants de l’inutile più o meno famosi che si sono sentiti dire “ma che fai, sei scemo?”, o qualsiasi espressioe simile anche più aulica nei tempi passati. Ora la loro ansia ha un senso certificato ufficialmente, il desiderio di affrontare l’ignoto fa parte degli aspetti culturalmente accettabili, e da preservare, dell’essere uomo. Poi andando più a fondo mi sono messa a pensare a mio padre, a cui quella definizione e quella ricerca, in piccolo, si applicavano benissimo, ai Gervasutti e Rebuffat. Solo che adesso l’alpinismo non è più quella cosa lì, e da parecchio, se già Walter Bonatti metteva in guarda dal trasformare l’alpinismo in un circo.
E quindi ci si può domandare, che cosa , adesso, l’alpinismo, e come giudicare questa decisione dell’Unesco ( che dalla sua ha anche delle decisioni alquanto controverse per non dire altro). Lo ha fatto Emanuele Confortin su Alpinismi, in questo bell’articolo che vi consiglio di leggere, e che sintetizza le opinioni di alcuni noti esponenti dell’alpinismo italiano (Messner, Manolo, Giordani) tutti in vari modi perplessi. Alla fine , dare una definizione per qualcosa che sin dalle origini ha rifiutato di darsi limiti e paletti appare difficile. Come l’Uno di Plotino, è più facile anche me farne una teologia negativa, cioè dire che cosa non è. Non è quella roba, quale che sia, che vedremo alle Olimpiadi di Tokyo il prossimo anno, non è scalare l’Everest tutti intruppati con la maschera ad ossigeno e aggrappati forsennatamente alle corde fisse (quello che accadrebbe anche a me se avessi i soldi e la salute per pagarmi una cosa del genere). non è nemmeno, temo, l’altrettanto forsennata ricerca dello spettacolo o della cima ad ogni costo, ad ogni rischio (tipo Honnold, con tutto il rispetto), non è nemmeno un calderone in cui ficcare dentro tutto l’outdoor, come chi scende dallo Skyway in scarpe da tennis.
Chissà, magari questo riconoscimento sarà utile ( a fini turistici, sicuramente, visto che l’Unesco ormai serve a questo e a poco altro): almeno ci costringerà a ripensare al modo con cui andiamo in montagna, alla preparazione fisica mentale psicologica che ci vuole ( io salgo un sassetto e sono paga, ma fare il Pilone di Freney, che ora non è tutta quella tragedia che era negli anni Sessanta ma nemmeno è una passeggiata, se non mi armo di attrezzi e adeguata preparazione e accompagnatore professionista, beh in cima non ci arrivo, di sicuro).
Forse, invece, a piedi in cima alla Marmolada ci arrivo, da Fedaia, per quel ghiacciaio che nei primi anni Duemila era così, in ombra nel tardo pomeriggio, tra vent’anni non ci sarà più, e magari io sarò una vispa ottantenne.
Almeno questo ci costringera a riflettere di più sula fatto che le montagne e i mari sono quelli che maggiormente hanno risentito dei cambiamenti climatici e che dal 2002 (anno in cui è stata istituita la giornata internazionale) a ora non si è fatto granché, a parte piangere sui ghiacciai che spariscono e costruire nuovi impianti sciistici per…quale neve?
Ci costringerà, io spero, a EDUCARCI
Frequento la Marmolada e le Dolomiti dal 78…
Vederne il cambiamento è un vero pianto, ma mi sembra che non ha smosso la compassione di nessuno, anzi…
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