Don’t try this at home

Per una strana coincidenza nell’arco di due giorni ho visto due film di arrampicata, già di per sè  una cosa curiosa, perché al di fuori dei circuiti specializzati è praticamente impossibile. La scorsa settimana, mentre ero già in modalità cena- gatto- libro mentre il cugino piacione mi enumerava i film del tutto ininteressanti in programmazione alla locale multisala,  termina dicendo ah e poi c’è questo “evento speciale” Free Solo (pronunciato come scritto). E io, che già ero pronta per il letto dopo una giornatona lavorativa, sono saltata su, pensando “ma quando mi ricapita?” Mangio, mi vesto, esco. A quel punto il cugino piacione (cui, va detto, di Alex Honnold, del free solo e di Yosemite tutti insieme non potrebbe fregare di meno, il tutto per di più in un film sottotitolato che per lui è anche più faticoso seguire) dice no no ti accompagno. Ora, a me non piace andare al cinema da sola, ma a vedere un documentario di freeclimbing, chi potevo trovare, se non degli altri disperati come me? In ogni caso, andiamo, paghiamo (un’esagerazione: la ragazza alla cassa che ci conosce per habituè si è pure scusata)  e ci sediamo giusto in tempo. Ora, la cena del cugino piacione mi ha disturbato tutta la sera, e temo abbia disturbato anche coloro seduti in loco viciniore: siccome notoriamente nella piana circolano orde di vampiri inferociti, la sua cena deve essere stata una testa d’aglio vecchia con qualche foglia di lattughino. Mentre lottavo con le zaffate di nausea cercavo di ragionare sulle immagini che vedevo. Ovviamente non ho intenzione di pontificare sulla sua scelta di vita  (considerato che mi imbragherei per cambiare le lampadine al lampadario):  diciamo che mi sentivo molto vicino ad uno degli operatori che da terra diceva aagh mai più.  Eppure in tutto il film non hai mai l’impressione della vertigine che una scelta del genere comporta, piuttosto è suggerita; nel film abbondano primi piani delle mani di Honnold che si infilano in buchetti inconcepibili. Quello che viene reso esplicito è la preparazione atletica e psicofisica dietro alla prodezza, il lavoro di potenziamento fisico e mentale, la preparazione. Honnold impara letteralmente a memoria la parete, salendo più volte con Tommy Caldwell che la conosce a menadito. Poi, certo, possiamo fare tutte le considerazioni che vogliamo sull’alpinismo contemporaneo che viene per così dire fatto per essere trasmesso (e se anche fosse caduto, gli operatori con lui in parete con macchine e droni avrebbero filmanto lo stesso). Cinematograficamente bello, ma come dire, e anche questo è abbastanza paradossale, molto vecchio stile. Da un’impresa del genere mi sarei aspettata qualcosa di più visivamente interessante (o adrenalinico).

Il giorno successivo, girovagando sulla benemerita Netflix, mi imbatto nel film di Tommy Caldwell The Dawn Wall. Stesso posto, stessa parete, ma Caldwell ha liberato il versante orientale, il primo ad illuminarsi all’alba.  Ha scalato come Honnold, solo con le mani, ma legato, e già non è una cosa delle più semplici, con un compagno molto esperto in bouldering (per noi, sassismo) ma non in free climbing  e in più portandosi dietro una eredità pesante (un matrimonio fallito, un episodio traumatico in Kirghizistan). Caldwell è una figura sicuramente più interessante e a tutto tondo, anche nel gestire il circo mediatico che inevitabilmente avvolge i due scalatori rimasti in parete per tre settimane in inverno con i cronisti che facevano in tv commenti a caso. Honnold, con tutto il rispetto per la sua abilità tecnica e la sua freddezza…beh dà l’impressione di aver qualche difficoltà in più a relazionarsi con il mondo. (Magari ora, con il successo, la paternità, l’Oscar si sarà rilassato…)

In più, ho trovato The Dawn Wall decisamente più appassionante sul piano narrativo (oltre che molto più comoda la visione…). In ogni caso, meglio non ripetere a casa (anche la cena a base d’aglio)

Informazioni su alpslover

camminatrice e scrittrice, insegnante e madre - di - gatto, moglie scoordinata e ricercatrice, vive nel profondo nord.
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