Se si decidere di rivangare il passato, meglio essere precisi. Il vecchio Caio, il calzolaio, in realtà aveva un negozio di scarpe, piccolo ed ingombro di scatole e scatoloni, almeno io me lo ricordo così, ma, certo, aggiustava anche le scarpe. Aveva la vetrina aperta e stava lì a lavorare, e chiacchierava con tutti quelli che passavano. Era un vero uomo di montagna, che indossava gli stessi grossi scarponi che vendeva. Per la verità, quando ero piccola, nessun abitante del luogo andava in giro con scarpe da città. Solo scarponi, almeno gli uomini. Anche il nostro padrone di casa, il ragionier Salluard, aveva sempre grosse scarpe con la suola spessa, nere, e in un certo senso più eleganti. Del resto, me lo ricordo di più in abiti eleganti, gessati con il gilé e fazzoletto bianco nel taschino, piuttosto che in abiti da montagna (cioè camicia a scacchettoni, come quelle pubblicizzate da Carlo Mauri, e pantaloni di velluto). Per la verità, io appartengo già alla generazione successiva, che ha cominciato a smettere i pantaloni di velluto, lunghi o al polpaccio (variante femminile, la gonna pantaloni di velluto, come aveva mia madre). Per dirla con Giancarlo Motti, la nostra generazione di “falliti” ha cominciato a buttare a mare anche i pantaloni lunghi in generale, a meno che non fossero jeans ( e come facessimo non so, i jeans mi sembrano uno scafandro tanto quanto i pantaloni di velluto) Poco dopo, sono arrivati i pantaloni di cotone colorato, direttamente dall’America e dai fanatici dell’arrampicata. Se ricordo bene, il mio amico Remo era stato uno dei primi ad innamorarsene. Poi naturalmente erano arrivati i fuseaux da arrampicata, ma quello era un capo che non mi apparteneva ( e bisognava avere le gambette di Patrick Edlinger). Adesso, ci sono decine di marchi e si può essere fashion anche andando su bricchi sconosciuti (ma di solito si chiamano sponsorizzazioni).
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