Mi ero ripromessa di rimanere il più possibile neutra in questo periodo
E di non raccontare i fatti miei, di non uscire dall’ambito di articoli che abitualmente scrivo, di non perdere tempo con il cazzeggio locale come avevo fatto negli anni passati. Ma dopo vent’otto giorni di quarantena, non è, semplicemente, possibile.
Dopo la prima settimana passata , come avevo già forse detto, a lavorare in presenza, in un ufficio, e in un edificio completamente deserto ( quindi con possibilità di contagio bassissima, avendo limitato le uscite all’andata e al ritorno, in auto, portandomi appresso cibo e bevande) e un’altra settimana a presenza ridotta (due giorni e mezza ) ci siamo fermati del tutto, e ci siamo messi a lavorare da casa. Lo dico con ( giusto ) orgoglio, ho controllato, e aggiornato le applicazioni necessarie per me e per i colleghi. Qui iniziano i problemi. Il digital divide è una cosa reale. Il mio direttore abita sulle colline nei dintorni di Cassine, in luogo bellissimo ma dove internet e pure la rete cellulare funziona a sprazzi (per cui magari riesce a telefonare ma non a entrare nella posta ; noi ci siamo arrangiati in vari modi, mescolando videoconferenze e chiamate whatsapp ma cerco di immaginarmi, per deformazione nata dal mio vecchio lavoro, studenti e docenti alle prese con problemi nuovi e strutture vecchie)

Siccome per natura sono una persona abbastanza rispettosa delle regole, dopo la mia scappata francese sono rimasta sempre in casa – e devo dire che uscire mi dà sempre più fastidio, non solo perché di tanto in tanto incontro dementi che fanno jogging stretti stretti mentre io mi dedico alla corsa indoor, allo yoga, al pilates, a quello che vi viene in mente, ma a casa, con i gatti felicissimi che facevano gli agguati alle mie caviglie – i primi giorni mi guardavano straniti, perché per loro se sto a casa sono malata. Adesso si sono abituati. Vedremo cosa succederà quando ritorneremo alla normalità. Ma ci torneremo, poi? E no, non credo che siamo diventati migliori: ci sono più multati che contagiati, e in giro i vecchietti con la sportina e senza mascherina (il cognato novantenne di un nostro amico genovese va a fare la spesa tutti i giorni)
La situazione nel natio Mandrognistan non è delle migliori. Probabilmente avremmo dovuto diventare anche noi una zona rossa, visto che una parte cospicua del territorio fa ormai parte dell’ Hinterland milanese, e infatti proprio lì si sono concentrati i contagi, partendo da una nota discoteca. Il problema è che qui ci si ammala, ma non si guarisce, e ancora nessuno, gentilmente, è venuto a spiegarci il perché. E sì, dopo un mese, e svariate persone che conosco contagiate, tra cui un cugino farmacista molto più giovane di me che ha fatto le sue tre settimane in terapia intensiva, comincio sentitamente a incazzarmi, perché io, sì, faccio parte di quell’area a rischio in cui è facile essere contagiati.
In compenso ho fatto amicizia con i miei vicini di casa – dopo due anni passati ad ignorarci. Merito probabilmente di Cinorosino e Fanny che frequentano la terrazza messa in sicurezza e si stravaccano al sole con l’allure degli ex gatti di strada che sono – ho scoperto che di gatti nel palazzo ce ne sono diversi altri. Ho visto la faccia nascosta di molte mie conoscenze che hanno cominciato a spargere di tutto, dalla negatività genere moriremo tutti, alle fake news più strampalate, alle catene di sant’Antonio con il crocifisso portato in processione virtuale. Capisco che stiamo sclerando un po’ tutti, ma alcuni hanno sclerato prima e peggio. Io mi sono salvata smettendo di seguire i telegiornali e leggendo soltanto la newsletter del Post ( che ha una pagina dedicata al COvid 19) – Non mi pagano loro, li pagherò io alla fine di questa buriana. E adesso scusate, ho la lezione di yoga in diretta